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Monday, November 30, 2020

Addio a DIEGO MARADONA

Nella mitologia greca gli dei più antichi sono i Titani, considerati come le forze primordiali del cosmo, generati da Urano (cielo) e Gea (terra). Prometeo è il Titano che ruba il fuoco agli dei dell’olimpo per darlo agli uomini ed incorre nella punizione di Zeus che lo incatena ad una rupe ai confini del mondo per poi sprofondarlo nel Tartaro, il centro della terra. Prometeo simboleggia la lotta delle libertà contro il potere, ruba gli attributi agli dei (forza, coraggio, bellezza …) per darli agli uomini.

Diego Armando Maradona è stato il Prometeo che ha rubato agli dei qualità soprannaturali, adatte al calcio, le ha personificate ed applicate in modo unico diventando, a detta di molti, il giocatore più forte di tutti i tempi. Ma come Prometeo Diego, l’uomo, ha subito la punizione degli dei che l’hanno fatto sprofondare nell’inferno di quel mondo che lo aveva osannato come un Dio.

Diego Armando Maradona era nato il 30 ottobre 1960 a Buenos Aires nella baraccopoli di Villa Fiorito, fin da piccolo aveva mostrato un grande talento per il pallone, si allenava e diceva che il suo sogno era giocare per l’Argentina ai campionati del mondo per poi vincerli. Molto presto ci si accorse che Diego era un genio del calcio. Nella coscienza collettiva dei tifosi un dio calciatore si era personificato in Diego che prese precocemente a fare miracoli dentro un rettangolo erboso.

Il giornalista Fausto Pellecchia alla domanda: In che senso Maradona era un dio? Risponde: «In omaggio al suo genio … non solo per la genialità dei suoi piedi ma, a ben guardare, anche della sua testa e di tutto il suo corpo. Il genio che abitava in lui, tanto sottile quanto brutale, era in grado di creare attraverso lo sbilanciamento e la sproporzione. Sapeva mantenersi sul filo imprevedibile nella velocità come nella direzione della sua corsa: quando credevi che stesse finalmente per scivolare, con un’improvvisa piroetta, riusciva a capovolgere la situazione andando in gol. Ed anzi faceva le due cose contemporaneamente: mentre cadeva sotto il placcaggio o la spinta di un avversario, nell’attimo di capitolare al suolo cadendo, usava la sua caduta come artifizio per segnare. La caduta non equivaleva per lui alla fine, ma alla prosecuzione del gioco con altri mezzi. Se c’è una lezione che Maradona ci lascia, e che si può scoprire solo osservando i suoi movimenti al rallentatore, è proprio questa: creare è possibile solo se si è in procinto di cadere. Nello squilibrio, si cela la possibilità del nuovo».

Maradona, divino sul campo di calcio è stato anche un eroe epico capace di riscattare l’Argentina. Quattro anni dopo la guerra nelle Malvinas Maradona aveva reclutato anche Dio per regolare i conti con Margaret Thatcher. Ai campionati del mondo del 1986 l’Argentina sconfisse l’Inghilterra ai quarti di finale e Maradona segnò una rete considerata il gol del secolo, tre minuti dopo aver segnato un gol con la mano (noto come „mano de Dios“). Giocando da protagonista Maradona fece vincere all‘Argentina la coppa del mondo FIFA. Per molti argentini quella vittoria fu l'unico vero successo globale negli ultimi cinquant'anni della loro storia fu come vincere una guerra mondiale. 

La redenzione che Maradona ottenne per l'Argentina in Messico nel 1986, la elargisce una seconda volta un anno dopo, stavolta in Italia, quando il Napoli con Maradona, mitica maglia numero 10, vince il suo primo scudetto nel campionato 1986-1987, stagione in cui batté dopo trentadue anni la Juventus al Comunale di Torino. In particolare il suo schierarsi contro i "poteri forti", le sue umili origini, il suo beffarsi degli uomini e delle regole, il suo carattere dionisiaco le sue imprese creò una simbiosi con i napoletani che lo videro come un rappresentante degli "oppressi" del Sud Italia che lottava contro lo "strapotere" delle squadre del Nord. Era anche un riscatto del mezzogiorno d’Italia contro l’oltracotanza del Nord.

Il Dio calciatore si era personificato in Maradona sul campo di calcio, ma fuori di esso il genio l’abbandonava e rimaneva Diego, un uomo buono e fragile, rimasto in un certo senso fanciullo con tutta la sua sregolatezza, inerme di fronte ad un mondo che l’osannava ma nello stesso tempo lo travolgeva. Il declino di Diego dal punto di vista umano è cominciato a Napoli vittima di una popolarità asfissiante, di gente che approfittava di lui, della camorra e dalla dipendenza dalla cocaina, assunta all’inizio per lenire i dolori causati dagli infortuni, ma che col tempo cominciava ad interferire con la sua capacità di giocare a calcio.

Negli anni successivi al suo ritiro come giocatore, avvenuto nel 1997, a causa degli eccessi con alcol, cibo e cocaina la sua salute peggiorò progressivamente, costringendolo a diversi ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici, oltre a piani di riabilitazione e disintossicazione tra gli anni duemila e gli anni duemila dieci. Il 25 novembre 2020 in Argentina, Diego Maradona è morto all’età di 60 anni per insufficienza cardiaca acuta.

 Per tutti gli appassionati di calcio a cui Maradona ha regalato gioie immense è una cosa inimmaginabile e se si dovesse spiegare la forza e la profondità del loro dolore si potrebbe dire che, con Maradona, è morto quello che nella mente di molti era un immortale. Diego Maradona rimane nell’immaginario un icona laica vivente, un idolo. Per tutti uno dei più grandi giocatori di calcio di tutti i tempi.

Sandro
30.11.2020


Tuesday, May 7, 2019

IL GRANDE TORINO

Il 4 maggio 1949 è stato funestato da una tremenda sciagura per lo sport italiano. L‘aereo che riporta a casa la squadra di calcio del Torino, reduce da Lisbona dove aveva giocato una partita amichevole,  precipita e si incendia sulla collina di Superga. Tutti i 18 giocatori, i dirigenti e tre giornalisti perdono la vita.
I sentimenti di sgomento, dolore, tristezza che si diffusero in tutta Italia, quando la radio dette la notizia, sono rimasti impressi indelebili nella coscienza collettiva del paese.
Sul sito di LazioWiki ho letto l’articolo scritto da Indro Montanelli sulla tragedia di Superga. Lo riporto sul mio Blog perché rende mirabilmente omaggio, a distanza di 70 anni, al GRANDE TORINO. L’articolo evidenzia inoltre la magia del calcio che riesce, quando si è giovani e anche dopo quando si è avanti nell’età, a far sognare i suoi appassionati.



Articolo di Indro Montanelli sulla tragedia di Superga del 4 maggio 1949
Oggi, affacciandomi alla finestra, non ho visto giocare a calcio i ragazzini in piazza San Marco, sulla quale guarda la mia casa, tra i resti delle bancarelle che vi tengono mercato il lunedì e il giovedì. In genere, ce n'è una nuvolaglia, affaccendati a correre dietro palle, di tutte le categorie e di tutte le età: scolari delle scuole medie con la cartella dei libri abbandonata in un angolo e le dita macchiate d'inchiostro, garzoni di fabbro con la tuta sudicia di morchia, apprendisti parrucchieri con la chioma lustra di brillantina. Li conosco tutti dai nomi di battaglia che si son dati: "Mazzola" è un tracagnotto biondastro dalla faccia larga e ridente; "Gabetto" un bruno esile e nervoso che ha la specialità di non scomporsi i capelli nemmeno nelle fasi più focose del giuoco; "Bacigalupo" è quello che, in genere, difende la porta, sorprendentemente agile per la sua rotonda corporatura; eppoi "Castigliano", "Menti", "Loik", "Ballarin", "Maroso", e cosi via.
Ci sono, ci sono stati tutti i giorni, in piazza San Marco, a giuocare: non so da quando, forse da sempre. Si allenano per la grande partita della domenica, quando si mettono in maglia e mutandine, e allora, ai margini, si raccoglie anche il pubblico dei passanti a guardare. In una di queste partite, uno di essi che si chiamava "Grézar", fu degradato sul campo: cioè i compagni gli tolsero quel nome, e gliene diedero un altro, più modesto. Oggi la degradazione è stata generale. Sparpagliati a gruppetti, ai quattro angoli della brulla piazza, a semicerchio intorno a uno che leggeva un giornale sgualcito, i ragazzini di San Marco avevano ripreso ognuno il proprio nome di tutti i giorni, quello col quale il maestro, a scuola, li chiama a recitare la poesia di Aleardi e il padrone della bottega li iscrive nel sindacato dei "praticanti". E così "Mazzola" non era più che Dubini Mario, alunno della "quarta B". Era lui che leggeva il giornale ai compagni, sedutigli attorno in semicerchio, e ogni tanto approfittava della ciocca di capelli che gli scendeva sulla fronte per ritirarsela su, e passarsi, intanto, la mano sugli occhi.
I suoi compagni più piccoli quelli che, in genere, venivano adibiti, nelle partite della domenica, a raccogliere le palle che uscivano in "fallo laterale" (quante volte ho rabbrividito, alla finestra, vedendoli guizzare fra un tram e un'automobile!) e che aspiravano a diventare, a loro volta, Loik, Gabetto, Bacigalupo e Maroso, stendevano, a una a una, per terra, come un generale distende la sua truppa, le figurine dei popolari giocatori, di cui ognuno di essi è, più o meno, ricco collezionista. C'era un po' di vento, e il pulviscolo di rena, che esso trascinava nella sua corsa, ogni tanto ricopriva una di quelle figurine, minacciando di sotterrarla; ma subito il collezionista la spazzava via, passando col dorso della mano una lieve carezza sul cartoncino e poi soffiandoci sopra, puntualmente. Sono ancora gli unici, i ragazzini di piazza San Marco e di tutta Italia che si ostinano a lottare contro i tentativi della rena di inghiottire i loro diciotto eroi. E le figurine che li rappresentano nell'atto di calciare la palla o di ghermirla al volo, continuano ad essere oggetto di un affettuoso e reverente mercato, seguitano a passare di mano in mano, come vivificati per l'eternità dalla rispettosa ammirazione che suscitano nei loro giovani emuli.

Per la partita del 22 maggio con l'Austria, se si farà, il collega Carosio, miracolosamente scampato al disastro, dovrebbe fare, per i ragazzi di tutta Italia, una trasmissione speciale, ribattezzando col nome degli scomparsi i loro sostituti. - Mazzola passa a Menti; Menti indietro a Castigliano...- dovrebbe egli dire al microfono; chè almeno ai ragazzi non sia tolta l'illusione dell'immortalità. Sono appena cinque giorni che li abbiamo visti giuocare l'ultima volta, qui a Milano …. E già domani l'erba comincerà a crescere sulla tomba di quei diciotto giovani atleti che sembravano simboleggiare una omerica, eterna, miracolosa giovinezza. Come possono rendersene conto i ragazzi di piazza San Marco e i giovani di tutta Italia?
Gli eroi sono sempre stati immortali, agli occhi di chi in essi crede. E così crederanno i ragazzi, che il "Torino" non è morto: è soltanto "in trasferta". Ma anche a noi, che con animo di ragazzi abbiamo sempre frequentato e seguitiamo a frequentare gli stadi, sia consentito immaginare i diciotto atleti del "Torino", "in trasferta". Oh, non ci è difficile raffigurarci il grande campo che, lassù, li attende: senza limitazione di posti, lastricato di erba eternamente verde e molle, senza macchie di nuda terra. La squadra campione, con tutto il suo orgoglio di bandiera, ha voluto recarvisi a carico pieno: non solo gli undici "titolari" ha condotto con sè; ma anche sette "riserve", e l'allenatore, e il massaggiatore, e il direttore tecnico, e perfino tre giornalisti.
Sul grande campo di lassù ci sono vecchie conoscenze ad attenderli. In prima fila Emilio Colombo, l'Omero dello sport italiano, forse l'unico tra noi che abbia serbato, sino a sessant'anni, intatta, la facoltà di credere nell'immortalità degli eroi. Accanto si tiene, in un gesto di affettuosa protezione, Attilio Ferraris che di poco lo precedette. Ferraris è ancora in "maglietta", perchè in maglietta partì per la grande "trasferta", come Caligaris, mi sembra. Essi non rientrarono, infatti, negli spogliatoi, dopo l'ultima partita casalinga: dallo stadio di quaggiù a quello di lassù, tutto d'un fiato. E Neri? Eccolo lì, col suo lungo naso. Quella del "Torino" fu proprio l'ultima sua maglia, e non l'abbandonò che per ammantarsi di tricolore, dopo che i Tedeschi l'ebbero fucilato su una collina di Romagna. Ma ora rientrerà in squadra con i compagni; sarà il diciannovesimo campione d‘Italia in quest'ultima definitiva "trasferta".

Ascoltate, ragazzi di San Marco e di tutta Italia, ascoltate la radiotrasmissione di Emilio Colombo, che ha ricevuto dalle mani di Carosio, per oggi, il microfono …. "Mazzola passa a Menti, Menti indietro a Castigliano... (e qui la voce si fa concitata, e i ragazzi di San Marco e di tutta Italia si stringono, con gli occhi dilatati dall'emozione e dalla speranza, intorno all'altoparlante)... Castigliano avanti di nuovo a Mazzola che dribbla uno... due... tre avv... goal... goal... ".
Chi grida cosi, chi grida? Siete voi stessi, ragazzi, o il vecchio Colombo, l'unico tra noi che sia riuscito a serbare, intatta, sino a sessanta anni, la facoltà di credere negli eroi? O tutta la folla di quell'immenso stadio senza limitazione di posti in cui il "Torino" è andato a carico pieno (undici "titolari" e sette "riserve") a giuocare la sua ultima vittoriosa "trasferta"?
Triste è piazza San Marco, calva di alberi, con le sue gialle chiazze di terra senz'erba, con i suoi gruppetti di ragazzi spogliati dei loro nomi di battaglia e senza palla, solo con le figurine allineate tra le pozzanghere. Le due squadre che vi giuocheranno domenica hanno deciso di portare il lutto: un segno nero al braccio, sulla maglia. I passanti si fermeranno, come sempre, a guardare; ma invano tenderanno l'orecchio per udire: - Forza Maroso... bravo, Bacigalupo... - nelle fasi salienti della partita. Domenica i giuocatori si chiameranno soltanto Dubini Mario, Rossi Francesco, Bianchi Giuseppe, e giuocheranno in silenzio, senza apostrofarsi. Domenica, otto giorni soli saranno trascorsi dall'ultima partita a San Siro dove il "Torino", solo a furia di orgoglio, si ricucì sul petto il quinto scudetto che inalienabilmente gli spetta (e voglio veder chi oserà portarglielo via) ma già i primi esili fili di erba saran cresciuti sulle diciotto tombe della squadra in "trasferta". "Forza Torino!", "Vinci Torino!".

sintesi a cura di ColosseoNews
05 maggio 2019

Tuesday, July 3, 2012

Europei 2012, argento per l'Italia


La nazionale italiana ha conquistato l’argento agli europei di calcio 2012. In finale l’Italia è stata battuta dalla Spagna che ha meritato l’oro.

La sconfitta in finale sul campo di Kiew, dopo la delusione iniziale, ha fatto riflettere ed ha evidenziato un fatto che va riconosciuto: la nazionale ha disputato un grande europeo ed ha raggiunto con il secondo posto un risultato che nessuno si aspettava.

La nazionale non era annoverata tra le favorite; gli sportivi italiani non sembravano identificarsi nella loro squadra. La prima fase a gironi è stata superata dalla squadra con qualche difficoltà, ma quando si è passati ai confronti diretti ad eliminazione, l’europeo si è arricchito di una sorpresa:  la nazionale italiana era cresciuta, otteneva risultati e giocava da protagonista. La nazionale ha eliminato l’Inghilterra ed ancora una volta, come da sempre nei confronti internazionali, anche la favorita Germania.

La nazionale italiana ha saputo dare vita ed aumentato l’interesse per il campionato europeo 2006. Gli azzurri guidati da Prandelli si sono messi in evidenza come un team altamente motivato, hanno cantato l’inno nazionale ad alta voce, hanno giocato e lottato all’estremo delle loro forze, sul campo caratteri estremi hanno fraternizzato e fatto squadra. Gli azzurri hanno affrontato tutti gli avversari a viso aperto; hanno giocato e fatto giocare al calcio. Questo merito è stato riconosciuto dalla stampa estera, sorpresa di vedere una nuova Italia giocare a tutto campo. In Italia ed all’estero, anche dopo la sconfitta in finale, non è mancato il rispetto. I valori espressi dalla nostra nazionale sono stati largamente riconosciuti. 

La squadra azzurra agli europei 2012 ha dato una dimostrazione di come si rappresenta il proprio paese, di come si possono superare grandi difficoltà, di come pur non essendo i più forti si possono superare i forti, di come si vince e come si perde, a viso aperto con dignità. Gli azzurri con il loro comportamento hanno dato questo messaggio gli italiani, credo sia stato apprezzato e recepito.

A tutti i membri della nazionale italiana di calcio, un sentito GRAZIE.

Sandro

Monday, May 30, 2011

Il Giro d’Italia 2011, nel 150esimo dell’Unità


Il Giro del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia si è concluso domenica 29 maggio 2011 a Milano con la vittoria di un campione, lo spagnolo Alberto Contador. Al secondo e terzo posto gli italiani Scarponi e Nibali. È stato un Giro d’Italia molto bello, degno dell’anniversario. Una festa dello sport dalla Sicilia alle Alpi, che ha saputo tappa dopo tappa, unire ed emozionare tanti italiani. Lo scenario del Giro, ripreso con le telecamere, ha fatto vedere quanto è bella l’Italia. Le ruote delle biciclette da corsa hanno percorso la penisola e tracciato sulle sue strade un’unica linea, simbolo dell’Unità del paese.

Ancora una volta il ciclismo ha fatto breccia nel cuore della gente, ha creato forti emozioni, ha polarizzato l’attenzione e risvegliato nelle persone la passione per uno sport che come nessun altro è riflesso della vita. I ciclisti sono partiti sapendo di dover pedalare per 3496 km, affrontare sette tappe di montagna, buttarsi giù a 70 Km/h su discese pericolose, soffrire, combattere e sperare. Non c’è spazio per la paura, per arrivare al traguardo serve forza, coraggio ed anche un po’ di fortuna. In un contesto cosi difficile la vittoria per il corridore è esaltante.

Il Giro d’Italia 2011 ha vissuto tanti episodi, tanti giorni belli, ma il 9 maggio è stato funestato da una tragedia. Nella tappa Reggio Emilia Rapallo, il ciclista belga Wouter Weylandt classe 1984 scendendo dal passo del Bocco ha perso il controllo della bicicletta, e dopo un volo pauroso è morto battendo la testa sull’asfalto. Il giorno dopo, in una tappa commemorativa, la squadra Leopard di Weylandt ha tagliato tutta assieme la linea del traguardo, subito dopo si è ritirata dal Giro.

La 19esima tappa da Bergamo a Macugnana, settima tappa con arrivo in salita, va ricordata per l’emozione suscitata dalla vittoria del “gregario” di 34 anni Paolo Tiralongo che da professionista non aveva mai vinto una corsa. La tappa era stata accompagnata da una pioggia torrenziale, a 13 km dal traguardo Paolo Tiralongo ha cercato lo strappo per vincere, solo Rodriguez tentava di riprenderlo. La corsa in testa di Tiralongo si è protratta fino a pochi Km dal traguardo, a quel punto Contador maglia rosa si è reso conto che il suo amico sarebbe stato raggiunto; allora è scattato, ha raggiunto Tiralongo, ha tirato per gli ultimi 500m, l’ha incitato e l’ha fatto vincere. Un gesto, quello di Contador di grande riconoscenza nei confronti del suo ex gregario ed amico. All’arrivo Contador si è cosi espresso: “Paolo ha fatto un grande lavoro per me lo scorso anno, per permettermi di vincere il Tour. È stato insostituibile e sono molto contento per lui”. Il trionfo per Tiralongo non poteva essere piu bello perché siglato dalla riconoscenza e dall’amicizia.

Agli organizzatori del Giro d’Italia 2011, a tutti quelli che hanno aiutato ad organizzare l’evento, alle squadre ed ai corridori va il rispetto e la stima di tutti gli italiani che amano il ciclismo. Questo anno in particolare, il grazie di chi ha seguito il Giro ed ha trovato in questo evento sportivo lo spazio per festeggiare con serenità i 150 anni dell’Italia. Molti hanno provato la contentezza d’essere italiani (“sono contento d’essere italiano” così affermava Enzo Biagi, un grande giornalista). Di questi tempi, non è poco!

Nella foto: Tiralongo taglia per primo il traguardo di Macugnana seguito da Contador.

Sandro